Incontro sulla misericordia
Zaccheo, capo dei pubblicani
Luca 19, 1-10
1Entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, 2quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, 3cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. 4Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. 5Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. 6Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. 7Vedendo ciò, tutti mormoravano: “È entrato in casa di un peccatore!”. 8Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: “Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”. 9Gesù gli rispose: “Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. 10Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”.
Gesù entra a Gerico (v. 1), una città che nell’Antico Testamento viene ricordata per la conquista della terra promessa da parte di Giosuè (che porta lo stesso nome di Gesù, un nome che allude alla salvezza). Gerico è la città conquistata dagli Israeliti, ma è anche la città in cui trova salvezza una donna, una prostituta di nome Raab che aveva nascosto gli esploratori mandati da Giosuè. E i padri hanno interpretato Raab – il cui nome entra nella genealogia di Gesù – come figura della Chiesa, che dona salvezza nel nome di Gesù (espone sulla casa il fiocco rosso che viene letto come riferimento al sangue di Gesù). A parte le forzature allegoriche, possiamo dire che anche qui Gerico è occasione di salvezza, è luogo in cui si ripete l’avvenimento della salvezza che accade ancor oggi nella Chiesa.
A Gerico c’è un un uomo di nome Zaccheo, che è adattamento greco di un nome ebraico che significa Dio “si è ricordato”. E infatti Dio si ricorda di lui, va a lui nella persona di Gesù. Quest’uomo è descritto come «capo dei pubblicani e ricco» (v. 2). Nel capitolo precedente Luca aveva riportato l’affermazione di Gesù secondo la quale è difficile per un ricco entrare nel regno di Dio, a cui aveva aggiunto, dopo la stupefatta reazione degli ascoltatori, che quello che per l’uomo è impossibile è possibile a Dio (cfr. 18,24ss). Un esempio di come Dio possa attuare la salvezza di un uomo ricco ci è data precisamente con l’episodio di Zaccheo.
Si ricorderà che Gesù ha incontrato altri uomini ricchi. Pensiamo a Levi, che è pubblicano come Zaccheo, anche se probabilmente a un livello inferiore, e che viene salvato dalla chiamata inaspettata del Signore: «Seguimi!». Ma Luca ricorda anche delle donne ricche che seguono Gesù e mettono i loro beni a disposizione degli apostoli e della comunità, utilizzando i loro possedimenti come strumento per la missione.
Zaccheo è uomo potente: è capo dei pubblicani di Gerico e sappiamo quanto i pubblicani fossero invisi agli ebrei. È un uomo certamente temuto, rispettato. Eppure, come vedremo, per raggiungere Gesù deve in qualche modo abbandonare la patina di rispettabilità, deve uscire dalla corazza della sua posizione sociale per esporsi di fronte a Gesù e agli altri. A differenza del giovane ricco che poteva dire di aver rispettato i comandamenti fin dalla fanciullezza, Zaccheo sa di essere peccatore, e questa consapevolezza fa la differenza.
Zaccheo cerca di vedere chi era Gesù, ma non gli riesce a causa della folla, perché è piccolo di statura (v. 3). Anche Erode cerca di vedere Gesù. E lo vedrà, ma sarà un incontro caratterizzato da un silenzio di morte. Gesù non gli risponde, infatti, perché ben sa distinguere fra chi lo cerca a partire da un desiderio sincero di incontro e chi invece semplicemente per curiosità, o addirittura per poter guardare in faccia uno che si considera rivale, quasi in gesto di sfida.
Zaccheo invece cerca di vedere chi era Gesù. Ora, il nome Gesù significa “Dio salva”. Il suo nome è il nome della salvezza: vedere Gesù significa voler essere salvato. Zaccheo è in cerca della salvezza. Essa non designa solo qualcosa di futuro, la salvezza finale, ma quella che si sperimenta in questa vita, salvezza dal non senso, dalla vuotezza, dall’inautenticità. E Zaccheo sente appunto che le ricchezze, il potere, non salvano; aspira a una salvezza più vera, più profonda. Avverte anche il suo limite: sa di essere piccolo di statura, sa che gli è precluso di vedere Gesù in mezzo alla folla. Possiamo vedere qui una allusione ai nostri limiti, anche interiori, che diventano un ostacolo all’incontro con il Signore e con gli altri. Ma Zaccheo, potremmo dire con un gioco di parole, non fa dei suoi limiti un limite all’incontro.
Allora corre avanti e sale su un sicomoro (v. 4). Sale fuori dalla propria meschinità, si eleva. Anche un semplice arbusto diventa occasione per questa “elevazione”. Chi ha un forte desiderio riesce a trovare tutti i mezzi per poterlo raggiungere. Il desiderio è creativo, escogita vie impensate. Chi ha il perché della vita, diceva Nietzsche, sopporta ogni come. Noi spesso non troviamo perché non cerchiamo, non abbiamo perché non chiediamo con fede.
Zaccheo sale sul sicomoro perché vuole vedere Gesù. È la seconda volta che si sottolinea questo verbo, che designa molto di più di un semplice contatto visivo. Zaccheo, che desidera tanto ardentemente vedere Gesù, scoprirà che la salvezza non è nel tanto nel vedere Gesù, ma piuttosto nell’essere da lui visto! È Gesù che lo vede. Zaccheo è più in alto, fisicamente, ma si sente guardato da uno sguardo più vero, uno sguardo che viene dall’alto: «Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”» (v. 5).
Oggi devo fermarmi: «Oggi bisogna che io rimanga a casa tua. Tu mi hai commosso, tu mi hai convinto; il tuo cuore è sincero, non posso fare a meno di riposarmi in te» (Gargano, 130). Nel Vangelo di Luca troviamo altre volte il termine “oggi” in legame con la “salvezza”: «oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore» (2,11); «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (4,21); «Oggi abbiamo visto cose prodigiose» (5,26); «Oggi con me sarai nel paradiso» (23,43). Insomma, l’oggi di cui si parla è il perenne oggi della salvezza, non si tratta di una annotazione cronologica ma kairologica. Quell’oggi dice dalla possibilità sempre aperta di incontrare il Signore nel presente della mia vita.
Allo sguardo di salvezza del Signore Zaccheo risponde non a parole ma con due gesti: scende in fretta e lo accoglie pieno di gioia (v. 6). La fretta ricorda quella di Maria che, ricevuto l’annuncio dell’angelo, raggiunge Elisabetta. E anche lì si sperimenta la gioia, si è fuori di sé dalla gioia, perché si tocca con mano la presenza del Salvatore: dove c’è il Salvatore, lì c’è la gioia. È la gioia di cui parlano gli angeli dando l’annuncio della nascita di Gesù, è la gioia che provano i pastori e i magi quando lo incontrano, è la gioia dei discepoli che vedono il Signore risorto!
Eppure non tutti partecipano alla festa. Anzi il Vangelo nota che tutti mormorano: «È entrato in casa di un peccatore!» (v. 7). Quanti assistono alla scena sono come il figlio maggiore. Invidiosi, pensano male e non capiscono. È la stessa obiezione che fanno alla conversione di un altro pubblicano, Levi, offrendo il destro a Gesù per affermare che non è venuto per i giusti, ma per i peccatori, non per i sani, ma per i malati. Potremmo dire che non c’è di nulla di peggio per una comunità che questo occhio cattivo (in-vidia), questo guardare male il bene. È la logica di chi nega la misericordia, l’accoglienza del peccatore, la bontà del padre. E di chi non ha incontrato veramente Gesù come Salvatore misericordioso.
L’incontro con Gesù cambia la vita di Zaccheo. Si alza – ed è la postura del risorto, di chi ha trovato la vita vera – e promette di dare la metà dei suoi beni ai poveri e di restituire quattro volte tanto (v. 8). È una decisione rispettivamente di condivisione e di giustizia. È la figura del discepolo che non lascia tutto, come altri, ma rimane nella propria casa, continua il suo lavoro, ma in modo del tutto diverso, testimoniando la radicalità del vangelo “nel mondo”.
E Gesù, ammirato da questa decisione, ammirato dal desiderio di Zaccheo che si traduce in azione, esclama: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza» (v. 9). È la salvezza che avviene in una casa, che può essere la casa della nostra vita. Scrive Jean Corbon: «La nostra dimora, la dimora che in modo misterioso è costituita dalla nostra persona, è spesso vuota e questo, paradossalmente, perché si trova piena, ma piena soltanto di noi stessi. Essa è piena dei nostri profitti, come lo era quella di quel pubblicano; è piena dei nostri desideri, delle nostre sconfitte, delle nostre ricerche. In tutte queste cose siamo come ripiegati su noi stessi. La nostra dimora è vuota perché in essa ci sentiamo perduti: noi stessi non riusciamo a ritrovarci!» (La gioia del Padre, 111). Per accogliere Gesù occorre che la casa sia accogliente, che sia vuota di noi stessi per poter essere riempita della sua presenza.
Ma la casa è anche la Chiesa, tanto che il brano viene utilizzato nella liturgia di dedicazione di una chiesa, in cui si celebra il luogo dell’incontro fra Cristo e l’umanità redenta.
Conclude il testo un versetto che probabilmente è stato aggiunto dalla comunità cristiana e rappresenta una sorta di commento, di conclusione morale: «Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (v. 10). È la missione di Gesù: venire a salvare chi è smarrito, perduto (il termine è lo stesso della parabola della pecorella smarrita), per riportarlo alla vita. Gesù mostra che Dio è alla ricerca dell’uomo e non si stanca di volerlo raggiungere e salvare: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (2Tim 2,4).
* * *
Qualche domanda per la riflessione:
1. Ho un desiderio reale di incontrare Gesù? E qual è “il sicomoro” che mi consente di salire e di vederlo?
2. I miei limiti, le mie piccolezze, sono un ostacolo all’incontro con Dio e i fratelli?
3. Sono insidiato dalla tentazione di mormorare di fronte alla misericordia di Dio verso gli altri?
4. La casa della mia vita è troppo piena di me stesso o può essere accogliente perché “oggi” avvenga l’incontro con il Salvatore?
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Luca 15, 1-2. 11-32
Incontro sulla misericordia
Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”.
11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. 20Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. 22Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. 31Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
Siamo in presenza di quello che è definito il «capolavoro narrativo di Luca»: la celebre parabola del figliol prodigo, o del padre misericordioso, o – meglio ancora – del “padre misericordioso e dei due figli” (cfr. v. 11).
Si tratta di un testo notissimo e la prima cosa da fare di fronte a un testo biblico conosciuto quasi a memoria è un atto di fede nella fecondità della Parola di Dio che parla sempre e sempre ci insegna, se siamo docili, cose nuove e profonde.
Gesù racconta questa parabola (oltre a quella della pecora smarrita e della moneta ritrovata) per giustificare, di fronte a scribi e farisei, la sua accoglienza dei peccatori e la comunione di mensa con questi. E, in effetti, egli tratteggia un’immagine di Dio Padre che egli stesso rivela nei suoi gesti e nelle sue parole: Lui che è “il volto della misericordia” del Padre (vv. 1-2).
La parabola inizia con la pretesa del figlio minore di ricevere la parte del patrimonio che gli spetta (v. 12). Al tempo di Gesù si trattava di una pretesa del tutto assurda, perché il figlio minore non aveva diritto all’eredità. È quindi un gesto consapevole di rottura. Contrariamente alla parabola della pecora smarrita e della moneta perduta, qui il figlio decide di partire e di lasciare la casa paterna.
È interessante notare come la partenza del figlio minore non sia determinata da un litigio con il Padre, ma da un desiderio di indipendenza, da una ricerca di felicità in un luogo diverso dalla casa paterna: in tal modo ci viene consegnata un’immagine assai attuale dell’uomo che avverte il legame con Dio come un legame oppressivo, schiavizzante, incapace di farlo accedere all’esercizio pieno della propria libertà. È il sospetto verso un dio geloso della libertà dell’uomo (ritorna sempre di nuovo la tentazione di Adamo) che alla sua creatura vorrebbe impedire di esercitare la sua piena libertà.
La pretesa del figlio minore è di godere di ciò che il padre gli dà – la parte del patrimonio che gli spetta – senza legame con il padre. Non è tanto e solo la rivendicazione della parte che gli spetta a costituire la colpa, ma piuttosto la pretesa di poter godere di questa eredità come cosa propria al di fuori del rapporto di donazione del padre. L’eredità – scissa dalla sua origine – perde la sua stessa consistenza.
Questa pretesa si rivela allora in tutta la sua «stupidità», perché lungi dal condurre a una pienezza di vita, alla realizzazione dei propri desideri, porta invece alla degradazione, descritta narrativamente come sperpero del denaro, dissolutezza di vita e dipendenza da un lavoro impuro. Partito con la speranza di godersi l’eredità, il figlio minore, che vive in modo «dissoluto», cioè sciolto da ogni legame e da ogni legge, si trova invece privato di tutto, in un paese lontano e in mezzo a una carestia (vv. 13-14).
Il figlio che si allontana dal padre si ritrova deluso, affamato, umiliato, in un paese lontano – potremmo dire: il più lontano possibile. Egli ha sperimentato l’alienazione del peccato, si è reso conto che il suo desiderio di indipendenza lo ha degradato, riducendolo ad una condizione quasi animale, tanto da dover pascolare i porci (animali impuri per eccellenza!) e desiderare persino le carrube date ad essi (vv. 15-16). È proprio l’esperienza della degradazione, insieme al ricordo che nella casa del padre anche i salariati stanno meglio di lui, a determinare il ritorno in sé (v. 17) del figlio: un ritorno in se stesso che non scaturisce ancora dall’esperienza della misericordia paterna – che egli proverà pienamente solo in seguito – ma che gli deriva dalla «nostalgia» di una dimora, nella quale anche solo la condizione di salariato è migliore di quella del «paese lontano».
A far rientrare in se stesso il figlio minore concorrono due cose. La prima è un’esperienza molto concreta: l’esperienza della fame. Tocca il proprio limite, sente la propria degradazione attraverso un istinto così elementare e così potente che lo istruisce sul suo personale fallimento. L’altra cosa è il ricordo che in casa di suo Padre c’è pane in abbondanza, che anche i servi stanno meglio di lui. Insomma, «il figlio confronta la corretta prodigalità del Padre con la sua prodigalità licenziosa e si rende conto che, mentre la prodigalità del Padre garantiva la crescita di una abbondanza tale da permettere la sazietà non solo dei figli, ma anche dei servi, la sua prodigalità licenziosa, non soltanto aveva inaridito il fiume della gioia e dell’amicizia, ma rischiava adesso di togliergli anche la vita: “E qui io mi perdo a causa della fame”» (I. Gargano, Lectio divina sul Vangelo di Luca/1, 153).
Solo il ricordo, anche se vago, della bontà del Padre, della sua sana prodigalità, può determinare il momento del ritorno. Come dice von Balthasar, con un’immagine efficace e suggestiva, «un bambino che si è comportato scortesemente con sua madre si può decidere a domandarle perdono perché egli sa del suo amore personale che continua; nella forza di questo amore egli può essere ancora capace di convertirsi. Rispetto a Dio la conversione del peccatore avviene non in base a una riflessione «naturale» sul concetto di un Dio buono, bensì per la fede vivente (quantomeno un giorno vivente) in un Dio che comunica se stesso per pura grazia, e la conversione stessa riconosce di dovere se stessa alla potenza efficace di questa grazia» (L’azione, 153).
«Mi leverò (anastàs) e andrò da mio padre» (v. 18): non è più questione di un’eredità rivendicata, ma di un rapporto ritrovato con suo padre, all’interno del quale si fa possibile la confessione del peccato: «contro il Cielo e contro di te». Il figlio si leva, ma potremmo anche dire: “Risorge”. È una vera e propria risurrezione che lo spinge a mettersi in cammino verso la casa paterna, anche se si tratta di una risurrezione ancora parziale. Il riconoscimento del peccato è infatti ancora finalizzato a ottenere una condizione di salariato (v. 19): il figlio allontanatosi dalla casa paterna non si ritiene più degno di essere chiamato «figlio», perché ha sperimentato uno stato di radicale contraddizione rispetto alla sua dignità filiale e non è ancora capace di immaginare la sovrabbondanza della misericordia paterna.
Si tratta di una conseguenza del peccato: l’incapacità di affidarsi alla misericordia del Padre, il non sentirsi degni di una tale misericordia. Questo atteggiamento, che potrebbe superficialmente essere scambiato per umiltà, è a ben vedere l’estrema propaggine del peccato, un egocentrismo finemente ammantato di umiltà, perché in qualche modo si ritiene che il peccato compiuto da sé possa determinare in maniera definitiva la perdita della dignità filiale, la quale è invece dono gratuito dell’amore del Padre. Il figlio, in altri termini, si vuole ancora una volta indipendente, anche nel peccato, anzi proprio nel peccato: questo gli preclude l’accesso al vero volto del Padre e, con ciò, alla gratuità del rapporto con lui.
Il volto di Dio si mostra in tutto il suo fascino nel comportamento del padre della parabola: egli vede il figlio quando questi era ancora lontano (chissà quanto a lungo lo aveva aspettato!); lo riconosce dunque come figlio, nonostante la misera degradazione in cui questi era caduto; freme di compassione (esplanchnísthe), a causa dello stato in cui suo figlio gli si presenta e al contempo è impaziente di donargli il suo perdono; gli corre incontro, mostrando così che la misericordia previene la confessione e infine gli si getta al collo, baciandolo in segno di perdono (v. 20). Il pentimento del figlio, espresso nel «non sono più degno…» (v. 21), viene totalmente accolto e superato dalla misericordia del padre, che mediante tre doni simbolici reintegra il figlio nella pienezza della sua identità filiale: la veste lunga allude alla dignità ritrovata; l’anello indica il possesso dell’autorità; i sandali sono segno distintivo dell’uomo libero (v. 22).
È la misericordia paterna a ristabilire il figlio nella sua condizione filiale, a donargli nuovamente l’accesso all’eredità paterna, che pure egli aveva sperperato, mostrandogli che il legame con il padre, la gratuità del suo donarsi, permette di godere davvero l’eredità, simbolicamente espressa dal banchetto di festa, segno escatologico della festa definitiva, della «vita», alla quale il figlio minore si era privato l’accesso, essendo «morto» (cf. v. 24) mediante il peccato. È molto importante sottolineare che questo ritorno «non è un ritorno che ristabilisce il figlio nel posto lasciato vacante. È un ritorno che, a causa dell’amore del padre, porta il figlio in una situazione più nobile, in un gradino più alto» (Gargano, 157).
A questo punto la vicenda potrebbe essere terminata, se non che il genio narrativo di Gesù introduce l’atteggiamento del figlio maggiore, non ricordato prima se non in modo implicito. Questi illustra la figura di un peccato diverso da quello dell’altro figlio e, in certa misura, ancora più grave.
Di fronte alla gioia della festa per il figlio ritrovato, di fronte cioè alla misericordia del padre, ora pienamente rivelata, il figlio maggiore «va in collera» (v. 28), manifestando così ad un tempo la gelosia nei confronti del fratello e lo scandalo verso la gratuità paterna: «il genere di perfezione vissuta dal figlio maggiore gli impedisce di entrare nella logica del padre, una logica basata sull’amore gratuito: la sollecitudine del padre gli appare esagerata, ingiusta. Lo scandalo che provoca quest’amore per il primo figlio porta alla luce la gelosia del secondo, gelosia che a sua volta manifesta il rapporto falso, in autentico che esisteva tra il primogenito e suo padre: il secondo figlio non ama un padre, ma obbedisce a un padrone» (Rossé, Il Vangelo di Luca, 615).
Questo andare in collera del figlio maggiore si contrappone radicalmente alla commozione che il padre ha sperimentato al ritorno del figlio minore. Tutti e due gli atteggiamenti riguardano la parte viscerale dell’uomo, che si muove o per la collera, come nel caso del figlio maggiore, o per la tenerezza, come nel caso del padre. Possiamo notare che in entrambi i casi il ritorno del figlio prodigo genera appunto delle reazioni “viscerali”, perché tocca tasti sensibili, elementi profondi della personalità. È come se questo andar via di casa e questo ritorno abbia fatto letteralmente scoppiare – in modo positivo o negativo – i sentimenti, l’interiorità del padre e del figlio maggiore.
Quest’ultimo intende prendere decisamente le distanze dal fratello, chiamandolo «questo tuo figlio» (v. 30) – il padre lo corregge: «questo tuo fratello» (v. 32) – e al tempo stesso accampa la sua fedeltà nei confronti del padre, che ha servito per molti anni, senza mai trasgredire un suo comando (cfr. v.29). Così si manifesta l’atteggiamento di fondo del figlio maggiore: egli, pur vivendo nella casa del padre, ne è però rimasto interiormente estraneo; non ha vissuto da uomo libero, ma da schiavo, non da figlio, ma da mercenario. Eppure il padre, anche nei confronti di questo figlio, mostra il suo volto di misericordia, andandogli incontro per spiegargli il suo comportamento (cfr. v. 28) e rivelargli il suo amore (cfr. v. 31).
Insomma, stare nella casa del padre implica rapporti di libertà e di gratuità: è questo che in diverso modo nessuno dei due figli capisce. Essi ragionano in termini di contabilità commerciale o di «pura» giustizia, di rivendicazione o di gelosia. Sia il figlio minore sia il primogenito della parabola sono invece schiavi: il primo della sua idea di «indipendenza», che in realtà lo assoggetta alle cose e lo degrada; il secondo della sua idea di «osservanza», che lo rende schiavo di un servizio estraneo, non assunto in libertà.
Solo se si comprende il volto di Dio che è Padre, solo se ci si abbandona – “visceralmente”, potremmo dire – alla sua sovrabbondante misericordia, si può vivere veramente da figli, felici di vivere da liberi nella casa paterna.
* * *
Qualche domanda per la riflessione:
- Ci sono degli spazi della mia vita in cui rivendico la mia indipendenza da Dio, in cui mi voglio godere l’eredità senza di Lui?
- In che occasioni ho sperimentato la forza di “alzarmi” per tornare a Dio? Ho sperimentato la gioia del ritorno?
- Come mi rappresento Dio? Come lo prego? Come Padre buono o come giudice accigliato?
- Ci sono dei momenti in cui mi comporto come il figlio maggiore?
- So commuovermi di fronte alla situazione degradata dell’umanità e di fronte alla misericordia di Dio?
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19 – 3 – 2016
Incontro sulla misericordia
Luca 10, 25-37
25Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. 26Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?”. 27Costui rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. 28Gli disse: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”. 29Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è mio prossimo?”. 30Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. 33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. 36Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. 37Quello rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ così”.
A Gesù viene rivolta una domanda (v. 25). È la domanda di uno versato nell’arte di interpretare la Scrittura, di un nomikós. È una domanda fatta per metterlo alla prova, come tante domande nel vangelo che non sono mosse dal desiderio della verità e della vita, ma dal voler cogliere in fallo Gesù. Di conseguenza, il titolo dato a Gesù – maestro – è qui piuttosto ironico, visto che lui non è certo un dottore della legge. Questo “maestro” è convocato per una questione molto concreta, nient’affatto spiritualista: dalla risposta di Gesù si sarebbero potute facilmente trarre conseguenze anche politiche, visto che Israele era oppresso da una potenza straniera.
Eppure, anche se fatta per mettere alla prova, si tratta di una domanda universale: Come si ha la vita eterna? Come si viene in possesso di una condizione di pienezza, di vita autentica e felice? Potremmo dire che ognuno di noi è “messo alla prova” dinanzi a questa domanda radicale. Qual è il mio rapporto con la vita eterna (= divina), con la vita che Dio mi vuol donare già adesso, su questa terra?
Sei esperto della Legge? sembra dire Gesù al suo interlocutore. Ebbene cerca lì la risposta alla tua domanda! (v. 26). Gesù rimanda semplicemente alla Scrittura in cui vi è l’indicazione della strada che porta alla vita eterna. Molto spesso le risposte sono già lì… e noi le cerchiamo chissà dove!
La risposta del dottore della legge è impeccabile (vv. 27-28): cita due testi biblici (Dt 6,5 + Lv 19,18) in cui emerge la profonda unità fra il comandamento dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo. “Amare il prossimo come se stessi”: è questo che viene particolarmente sottolineato dalla parabola di Gesù. Ma con una interpretazione che in certo qual modo cambia la prospettiva. Perché è l’altro che mi precede e mi chiama. “Ama il prossimo come te stesso”, potrebbe allora essere tradotto, alla luce sia di quello che dirà Gesù nella parabola sia del suo stesso esempio, “ama il prossimo tuo fino a dare te stesso” (Gargano, Lectio divina sul Vangelo di Luca. I, 102).
Il dottore della legge si vuole giustificare (v. 29). A volte la nostra interpretazione della Scrittura è fatta per il nostro comodo… Non accogliamo la scrittura qual è veramente: parola di Dio per la nostra salvezza (cf. 1Ts 2,13). “Chi è il mio prossimo?”: la domanda verte sull’interpretazione del comando dato da parte di Dio, su quale strada sia concretamente da seguire.
L’interrogativo sull’identità del prossimo era una quaestio disputata per il giudaismo del tempo: generalmente si riteneva prossimo il connazionale, a cui ci si sentiva legati da vincoli di sangue e dunque da doveri reciproci. C’era però nella Scrittura l’invito a ricordarsi dello straniero (cf. Es 22,20; Dt 10,19), perché anche Israele era stato straniero in Egitto. Tuttavia si tendeva a limitare questa indicazione allo straniero che era residente in Israele. È certo però che i samaritani non erano considerati prossimi: pochi anni prima del racconto, durante la pasqua avevano contaminato la piazza del tempio spargendovi ossa umane.
Ed ecco la parabola di Gesù che inizia con il riferimento a “un uomo” (v. 30): è un uomo qualsiasi, potrebbe avere il nome di tutti gli oppressi della vita, di tutti i feriti della storia.
La parabola raccontata da Gesù, dell’uomo incappato nei predoni, è assolutamente realistica: agguati di quel tipo, lungo quella strada erano all’ordine del giorno. E la strada, quella che scende da Gerusalemme a Gerico, è una via, reale, concreta, che diventa però anche una via simbolica, perché a Gerusalemme normalmente si sale, verso il Sacro (si pensi ai cd. “Salmi delle ascensioni”). Qui invece da Gerusalemme si scende, verso il profano, verso il quotidiano della storia.
Da quella strada passano un sacerdote e un levita (vv. 31-32). Sono entrambi conoscitori della legge (sacerdote e levita alludono a due diversi ruoli all’interno del tempio). Non si fermano, probabilmente non volevano contaminarsi: se il malcapitato morisse mentre lo si aiuta? La legge dichiara che chi tocca un cadavere diviene impuro. Forse non sono cattivi, forse avranno avuto solo paura, oppure non sapevano come soccorrere quell’uomo, vista la sua condizione disperata. Il fatto, però, è che entrambi “passano oltre” – è questa la nota negativa. Non sanno fermarsi. Vedono, ma sono proiettati oltre, dimenticano il qui e ora, la realtà concreta con il suo appello indilazionabile.
Passa anche un samaritano in viaggio (v. 33). Probabilmente si trattava di un mercante. Non era tenuto a prestare soccorso a un giudeo, non apparteneva alla sua comunità: i samaritani, come si accennava sopra, non erano prossimi dei giudei. Succede però qualcosa di imprevisto, di inaudito:
«Ed ecco ora apparire il samaritano. Che cosa farà? Egli non chiede fin dove arrivino i suoi doveri di solidarietà e nemmeno quali siano i meriti necessari per la vita eterna. Accade qualcos’altro: gli si spezza il cuore; il Vangelo usa la parola che in ebraico indicava in origine il grembo materno e la dedizione materna. Vedere l’uomo in quelle condizioni lo prende “nelle viscere”, nel profondo dell’anima. “Ne ebbe compassione”, traduciamo oggi indebolendo l’originaria vivacità del testo. In virtù del lampo di misericordia che colpisce la sua anima divenne lui stesso il prossimo, andando oltre ogni interrogativo e ogni pericolo. Pertanto quella domanda è mutata: non si tratta più di stabilire chi tra gli altri sia il mio prossimo o chi non lo sia. Si tratta di me stesso. Io devo diventare il prossimo, così l’altro conta per me come “me stesso”. Se la domanda fosse stata: “è anche il samaritano mio prossimo?”, allora nella situazione data la risposta sarebbe stata un “no” piuttosto netto. Ma ecco, Gesù capovolge la questione: il samaritano, il forestiero, si fa egli stesso prossimo e mi mostra che io, a partire dal mio intimo, devo imparare ad essere-prossimo e che porto già dentro di me la risposta. Devo diventare una persona che ama, una persona il cui cuore è aperto per lasciarsi turbare di fronte al bisogno dell’altro. Allora trovo il mio prossimo, o meglio: è lui a trovarmi» (Ratzinger, Gesù di Nazaret, I, 234).
Sono diversi i verbi che esprimono il concretizzarsi della compassione (v. 34):
* Lo vide: riconosce il volto singolare dell’altro e lo riconosce come appello etico.
Il samaritano vede col cuore, come dice Benedetto XVI nella Deus Caritas est (n. 31): «Il programma del cristiano — il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù — è “un cuore che vede”. Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente».
* Ne ebbe compassione: il verbo è esplanchnìste – si sentì muovere le viscere. Provare compassione significa sintonizzarsi con l’altro; permettere che l’altro mi tocchi il cuore: «entrare liberamente nel caos dell’altro» (Keenan). La compassione, poi, ci è possibile solo se ci lasciamo raggiungere dalla compassione di Dio verso di noi:
La compassione per noi comincia là dove ci lasciamo raggiungere dalla compassione divina. La compassione non viene dal nostro cuore, è molto diversa dalla nostra pietà. Per provare pietà basta essere un po’ emotivi e di buon cuore. La compassione divina è tutt’altra cosa, è realista e silenziosa, ed è al di là del sentimento. Essa consiste nell’assumere la condizione altrui (Corbon, La gioia del Padre, 70).
* Gli si fece prossimo: il samaritano si muove verso l’altro, esce da se stesso. E anche noi «dobbiamo imparare di nuovo il rischio della bontà» (Ratzinger, Gesù di Nazaret, I, 236).
Il samaritano, poi, cura le ferite di questo malcapitato con il vino e l’olio e lo porta in un ostello chiedendo all’albergatore di prendersi cura di lui (vv. 34-35). Vi è qui la descrizione del realismo della carità. Per aiutare il malcapitato, il samaritano non fa tutto da solo, ricorre all’altro, all’albergatore. Essere caritatevoli significa anche saper chiedere l’aiuto di altri, uscire dalla tentazione di fare tutto da soli.
Conclusa la narrazione della parabola, è Gesù ora a interrogare il dottore della Legge (v. 36). Capovolge la domanda. Non più: chi è il mio prossimo?, ma: A chi devo farmi prossimo io? Che ogni altro sia il mio prossimo è un’affermazione talmente diffusa da essere generica. Molto più radicale è invece la domanda: Sono disponibile io a farmi prossimo? Scrive Jean Corbon:
Nel capovolgimento operato dall’evangelo, il centro non è più il nostro io, bensì gli altri. Il prossimo non è un evento che si impone – gli altri – ma è un appello: siamo noi a doverci fare prossimi. Siamo noi il prossimo di quell’uomo caduto nelle mani dei briganti; o piuttosto, dobbiamo diventarlo. Il prossimo non esiste prima del nostro arrivo: siamo noi a diventare o a rifiutare di diventare prossimi, il prossimo degli altri (Corbon, La gioia del Padre, 68).
Solo se diventiamo prossimi dell’altro amiamo veramente noi stessi (“Ama il prossimo tuo come te stesso”). A leggere in profondità la parabola si potrebbe persino dire che a ben vedere, colui che ha ricevuto il dono, non è stato tanto il malcapitato. È stato lo stesso samaritano, che gli si è fatto prossimo.
Il dottore della Legge conviene con Gesù che il samaritano si è fatto prossimo e Gesù aggiunge semplicemente: «Va’ e anche tu fa’ così» (v. 37).
Diceva Ricoeur che «non si dà sociologia del prossimo, la scienza del prossimo è subito cancellata da una prassi del prossimo; non si ha un prossimo; io mi faccio prossimo di qualcuno» (Histoire et verité, 100). Farsi prossimo è una scelta relazionale. L’amore cristiano «ha le dimensioni della universalità e la qualità relazionale della prossimità: amore per ogni uomo, che mi diventa prossimo nell’atto di donarmi accoglientemente a lui» (Cozzoli, Etica teologale, 200).
Con questo invito è come se Gesù dicesse a ciascuno di noi: Non chiederti chi sia il tuo prossimo. Il prossimo sei tu ogni volta che ti avvicini all’altro!
* * *
I Padri della Chiesa ci hanno lasciato un’interpretazione allegorica della parabola. Ad ogni personaggio o avvenimento hanno accostato un particolare significato. Così l’uomo incappato nei briganti è l’umanità che, uscita dal paradiso delle origini (Gerusalemme), versa in una condizione di peccato (Gerico), ed è come morta. La teologia medievale dirà: l’uomo è spoliatus supernaturalibus, cioè spogliato dello splendore della grazia soprannaturale e vulneratus in naturalibus, cioè ferito nella sua natura.
Il sacerdote e il levita sono figure del sacerdozio e della legge, dell’Antica Alleanza che non è sufficiente per salvare l’uomo. Ecco allora il buon samaritano – il Cristo – che si china sull’umanità ferita per guarirla con olio e vino, segno dei sacramenti, e condurla nella locanda della Chiesa. Qui l’affida all’albergatore, che rappresenta i responsabili della comunità ecclesiale, dando i due denari, che possono rappresentare il duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo oppure l’Antico e il Nuovo Testamento. Così l’umanità può essere salvata, riportata in vita.
L’interpretazione allegorica, ovviamente, è forzata, ma esprime bene una verità centrale. Tutto il Vangelo si deve leggere alla luce di Cristo e della sua venuta. Lo dice molto bene Benedetto XVI:
Se la vittima dell’imboscata è per antonomasia l’immagine dell’umanità, allora il samaritano può solo essere l’immagine di Gesù Cristo. Dio stesso, che per noi è lo straniero e il lontano, si è incamminato per venire a prendersi cura della sua creatura ferita. Dio, il lontano, in Gesù Cristo si è fatto prossimo. Versa olio e vino sulle nostre ferite – un gesto in cui si è vista un’immagine del dono salvifico dei sacramenti – e ci conduce nella locanda, la Chiesa, in cui ci fa curare e dona anche l’anticipo per il costo dell’assistenza (Ratzinger, Gesù di Nazaret, I, 238).
In una recentissima intervista a J. Servais, lo stesso papa emerito, commentando il valore della misericordia, così centrale nel pontificato di Francesco, si chiede a un certo punto perché la parabola del buon samaritano piace tanto all’uomo di oggi. Dopo aver indicato alcune ragioni, poi aggiunge questo:
«Ma mi sembra altrettanto importante tuttavia che gli uomini nel loro intimo aspettino che il samaritano venga in loro aiuto, che egli si curvi su di essi e versi olio sulle loro ferite, si prenda cura di loro e li porti al riparo. In ultima analisi essi sanno di aver bisogno della misericordia di Dio e della sua delicatezza. Nella durezza del mondo tecnicizzato nel quale i sentimenti non contano più niente, aumenta però l’attesa di un amore salvifico che venga donato gratuitamente» («Avvenire», 16 marzo 2016, 22-23).
Ritroviamo un’eco significativa della parabola anche nella liturgia della Chiesa, quando si legge (nel Prefazio comune VIII del Messale romano):
Nella sua vita mortale egli passò beneficando e sanando tutti coloro che erano prigionieri del male. Ancor oggi come buon samaritano viene accanto ad ogni uomo piagato nel corpo e nello spirito e versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza. Per questo dono della tua grazia anche la notte del dolore si apre alla luce pasquale del tuo Figlio crocifisso e risorto.
Insomma: anche noi dobbiamo lasciarci raggiungere e curare da Cristo, per essere resi capaci a nostra volta di diventare buoni samaritani per gli altri. “Va e fa’ anche tu lo stesso”.
* * *
L’amore sporca (M. Bebber)
Sulla strada di Gerico, smembrato,
un commerciante ignoto.
Un paracarro di carne conficcato
a mezza via, vestito
di perizoma di mosche.
Forse il dito
restava, per raspare
nella polvere rossa un grido: aiuto!
Qualcuno vide, commiserò, passò
incontro a un Dio pulito.
Ma chi lo trasse alfine,
s’imbrattò fino al gomito le braccia.
E il Samaritano non seppe nemmeno
di aver brevettato l’amore
di un Dio sporco di sangue,
su quella strada di Gerico.
Qualche domanda per la riflessione
- Un “cuore che vede”. Come posso acquisire un sguardo compassionevole sull’altro?
- Quali sono le situazioni in cui sento di essere chiamato a farmi prossimo?
- Come superare la paura di “entrare nel caos dell’altro”?
- Mi lascio raggiungere da Cristo buon samaritano? Lascio che lui guarisca le ferite della mia vita?
Altri testi biblici da leggere in parallelo alla parabola del buon samaritano:
- Ez 16: la sollecitudine di Dio per l’umanità abbandonata e ferita
- Mt 25,31-46: ero povero e mi avete visitato…
- 1Gv 4,20: amore di Dio e amore del prossimo
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20 – 02 – 2016
Luca 7,36-50
36Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. 37Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; 38stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo. 39Vedendo questo , il fariseo che l’aveva invitato disse tra sé: “Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!”.
40Gesù allora gli disse: “Simone, ho da dirti qualcosa”. Ed egli rispose: “Di’ pure, maestro”. 41”Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. 42Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?”. 43Simone rispose: “Suppongo sia colui al quale ha condonato di più”. Gli disse Gesù: “Hai giudicato bene”. 44E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: “Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. 45Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. 46Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo . 47Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco”. 48Poi disse a lei: “I tuoi peccati sono perdonati”. 49Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: “Chi è costui che perdona anche i peccati?”. 50Ma egli disse alla donna: “La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!”
Un fariseo invitò Gesù a mangiare a casa sua. Un problema lo assillava: Gesù era davvero un “profeta”? Certi suoi contemporanei arrivavano addirittura a riconoscere in lui “il” profeta, l’inviato del Signore, il suo Messia. Il fariseo cercava una risposta rassicurante. E per facilitare un chiarimento o almeno per fare una più profonda conoscenza di Gesù gli aveva aperto la propria casa e lo aveva invitato a mensa.
La condivisione della tavola è il luogo quotidiano della confidenza e, eventualmente, della riconciliazione. Nello scambio dei semplici servizi che permettono di mangiare insieme c’è una priorità che viene sempre data al bisogno dell’altro piuttosto che alla nostra voglia del cibo presente davanti agli occhi. Mangiare insieme con altri vuol dire scegliere di ascoltarli prima ancora che cercare di saziarci! Il pasto è di per sé, nel suo stesso svolgersi, l’istituzione pratica della legge del dono. Questa legge che la madre inculca al bambino quando gli insegna a nutrirsi mette in valore e in vigore due esigenze. C’è vera accoglienza del cibo quando diamo agli altri un segno di attenzione o una prova di riconoscenza rivelatori, del nostro vivere un incontro con loro attorno al cibo. C’è vera condivisione del cibo solo quando c’è l’intenzione di costruire realmente un gruppo di persone, fosse pure provvisorio, liberando i commensali dall’isolamento e dalla giustapposizione. Questo esige che si susciti e si faciliti costantemente lo scambio di oggetti, di gesti e di parole tra coloro che sono avvicinati per un breve tempo dal medesimo nutrimento. C’è in gioco qualcosa che è ben più profondo di una semplice cooperazione pratica all’interno della stessa consumazione. Si tratta di rivelarsi gli uni agli altri, attraverso il bisogno da tutti sentito del cibo, che il fondamento della vita personale è il desiderio dell’alleanza, quale ci è rivelato ed è in noi realizzato dal dono del Padre.
La mutua dipendenza dei commensali a tavola dev’essere il luogo di rivelazione del loro bisogno di colui che dà il pane così come dà l’esistenza: il Padre della vita. Nulla è in grado di farci sperimentare questo bisogno di Dio quanto lo scoprire e il riconoscere la nostra povertà personale. La situazione della tavola può favorire lo svelamento della debolezza nella misura in cui il bisogno di cibo riattualizza in ciascuno la dipendenza del bambino. Ogni commensale è vulnerabile durante l’atto di mangiare: è esposto allo sguardo, al gesto e alla parola degli altri. È così che il fariseo e la peccatrice, ciascuno in maniera ben diversa, hanno scelto la tavola, luogo della legge del dono, per accostare Gesù, l’invitato di una sera. Simone, il fariseo che riceve Gesù, vuol cogliere l’occasione del pasto per farlo parlare dinanzi a testimoni che potranno in seguito valutare i suoi intenti. La peccatrice della città si introduce furtivamente nella casa dell’accoglienza: sa che Gesù seduto a mensa non disdegnerà il gesto di umile omaggio che lei vuole aggiungere ai gesti pratici dei servi e delle serve. Arriva senza aver chiesto nulla e, in pianto, si getta ai piedi di Gesù, bagnandoli con le sue lacrime. Gesù non dice una parola e la lascia fare, accogliendo con dolcezza quei segni di amore e di pentimento.
Questo imprevisto porta in realtà una risposta pratica alla segreta domanda del fariseo circa l’identità di Gesù. Gesù non ha parlato di se stesso, ma il suo comportamento verso la peccatrice è più che sufficiente a situarlo nei confronti del fariseo. Gesù non denuncia il peccato notorio di quella donna né la respinge, benché lei sia in uno stato di impurità legale, agli occhi dei farisei. Finalmente il fariseo può mettere fine al lungo dibattito interiore: quell’uomo Gesù non è un profeta, dal momento che non prende le distanze dalla peccatrice applicando la legge.
Il fariseo non ha detto nulla, la donna neppure, se non con le proprie lacrime. A questo punto è Gesù a prendere per primo la parola, e chiama per nome Simone che l’ha invitato. Gesù racconta a Simone la parabola dei due servi, l’uno e l’altro insolventi, a cui il creditore rimette il debito. L’intento della parabola è proprio quello di farci esprimete un giudizio: quale dei due debitori mostrerà più amore verso un creditore così magnanimo? E Simone è sufficientemente lucido da non cadere in inganno nella logica dei sentimenti elementari. La sua intelligenza astratta funziona alla precisione. Non ha esitazione, quindi, a dire che mostrerà più amore il debitore liberato dal debito più pesante. Simone ha visto chiaro in una questione di saggezza umana, e Gesù lo approva.
Ciò che Simone non ha percepito è che la parabola potrebbe rivelargli il senso della scena che si sta svolgendo sotto i suoi occhi. La spiegazione di Gesù ribalterà completamente la situazione. A questo scopo è sufficiente a Gesù svelare chiaramente a Simone la sua implicazione personale nel dramma evocato dalla parabola dei due debitori insolventi.
Gesù invita Simone a guardare la peccatrice e per tre volte di seguito mette a confronto diretto la mancanza di amore di Simone e il grande amore di quella donna. Simone non ha versato acqua sui piedi di Gesù; la donna li ha bagnati con le sue lacrime. Simone non ha dato un bacio a Gesù; la donna gli ha ricoperto i piedi di baci. Simone non ha cosparso di olio profumato il capo di Gesù; la donna gli ha cosparso di profumo i piedi. Simone si è limitato ad accogliere Gesù nella propria casa, senza il minimo gesto di riguardo o di amicizia. Non ha dato nulla di se stesso. Nulla ha manifestato della gratuità dell’amore. Ha avuto il comportamento distaccato di un superiore che si degna di concedere l’onore della propria tavola a un inferiore. La peccatrice, invece, con le sue lacrime ha moltiplicato i segni di umiltà e di amore. Con il linguaggio delle lacrime ha rivelato il fondo del proprio cuore e il proprio pentimento. Non ha neppure osato fissare il volto di Gesù, ma si è gettata ai suoi piedi per lavarli con le lacrime, asciugarli con i capelli, coprirli di baci e ungerli di profumo. Questa volta è Gesù che giudica, sorprendendo Simone nel suo stesso giudizio. Se la peccatrice mostra molto amore, è perché le è stato perdonato molto. Simone mostra poco amore perché crede di non aver nulla da farsi perdonare: preoccupato del peccato di quella donna, mai avrebbe pensato di riconoscersi peccatore dinanzi a Gesù.
E così, senza ancora dichiarare la propria identità, Gesù ha risposto alla domanda nascosta di Simone. Il compito del profeta consiste proprio nel rivelare all’interlocutore il suo peccato, come ha fatto Natan con David (2Sam 12,1-15; cf. 1Cor 14,24-25). Convincendo Simone di peccato, Gesù gli dimostra di essere davvero un profeta. Ma c’è ben di più: Gesù non si limita ad annunciare il perdono che viene da Dio, dopo aver denunciato il peccato. È nel suo stesso nome che rimette il debito alla donna: “Ti sono perdonati i tuoi peccati” (Lc 7,48). Un profeta parlava in nome del Signore e rivelava la parola di Colui che lo inviava. Gesù, invece, si manifesta come il Salvatore in persona. È lui stesso la Parola della grazia che ci rimette i peccati.
Simone si trova posto alla presenza di Dio che perdona. Ma per accogliere il perdono di Gesù bisognerebbe che, sull’esempio della donna, confessasse il proprio peccato nell’umiltà del cuore e nelle lacrime. È l’orgoglio la grande tentazione di coloro che fanno il bene e vogliono sempre far bene. Simone fariseo è il rappresentante del peccato più profondamente radicato nel cuore dell’uomo: l’orgoglio che ci porta alla volontà di costruirci e realizzarci senza l’aiuto della grazia e della misericordia del Salvatore. L’atteggiamento di Gesù nei confronti della peccatrice pentita ci svela in modo concreto che cos’è il perdono di Dio e che cos’è il nostro peccato. Il perdono è la parola di grazia con cui Dio ci ridona la capacità di amare. Quanto al peccato più grave, esso si rivela come il rifiuto di abbandonarsi alla misericordia di Dio manifestata in Gesù. Il perdono definisce l’azione di Dio salvatore che ci libera dal nostro peccato mentre noi siamo assolutamente incapaci di liberarcene da noi stessi. E il nostro peccato è la mancanza di amore che deriva dal fatto che non ci esponiamo alla misericordia di Dio.
Questo passo dell’evangelo, proprio perché ci svela il mistero di Gesù salvatore, ci mette nella necessità di prendere personalmente posizione nei confronti di Gesù salvatore. Ed è proprio questa presa di posizione nei confronti di Gesù che costituisce il punto di partenza per una meditazione teologica sulla nostra esperienza di uomini peccatori e perdonati.
Brano tratto da: J.C. Sagne, «Ti sono perdonati i tuoi peccati», in J.P. Van Schoote – J.C. Sagne, Miseria e misericordia, Qiqajon, Magnano 1992, 38-43.
Domande per la riflessione:
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Come vivo l’annuncio della misericordia di Dio in Gesù? In modo sospettoso, come se venisse meno la giustizia o la santità, o in modo liberante?
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«Colui al quale si perdona poco, ama poco». Mi sento molto perdonato? So amare con gratuità?
-
In che modo guardo alle persone e a gesti che magari sfuggono dalla mia mentalità?
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